Io mi interesso alla sostanza della musica, l'interpretazione è già più una questione di "cosmesi".
Il molto e il molteplice mi disturbano soltanto; devo cercare l'uno. Cos'è questo uno, e come posso trovare la strada che mi conduce a esso? Esistono molte manifestazioni di pienezza, l'inutile decade.
Arvo Pärt
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Ieri sera, mentre ascoltavo con emozione alcune composizioni di Arvo Pärt per ensemble vocale dalle voci dei magnifici “The Tallis Scholar” a teatro è emersa la domanda credo centrale sul suo lavoro. Cosa significa oggi volgersi al Sacro, cercarlo e considerarlo a fronte della sua scomparsa? E ancora, come pensare oggi il Sacro senza scivolare nell’oscurantismo? Non ho certo la risposta a queste due domande, posso limitarmi ad alcune note a margine. C’è indubbiamente fame di Sacro, lo si annusava nell’aria a teatro, un concerto non semplice per sole voci, con in parallelo Hildegard von Bingen e Gregorio Allegri, tutto per sole voci e il pubblico evidentemente emozionato e scosso da quel che tutti i brani suscitavano con precisione implacabilmente: il Sacro. In una civiltà, la nostra, dove metaforicamente l’onnipotenza sono i sistemi di difesa aerea da missili e droni, ma anche un’età media dell’esistenza cresciuta vertiginosamente, come l’alfabetizzazione, al punto da interrogarci su quando la vita vada interrotta per non affidarla alle sole macchine. Sì, il progresso c’è stato ed enorme, negarlo sarebbe semplicemente da irresponsabili.
Eppure parallelamente al progressto, all’avvento della tecnica tanto criticato da Heidegger, abbiamo indubbiamente fallito nel mantenere una relazione non tanto con la religione, sempre più impantanata in un modello tecnico, riducendosi a breviario morale sul fare e non fare, sull’infedele da odiare, sull’ennesimo radicalismo in cui costruirsi un’identità sempre più fragile, sulle decisioni politiche da prendere, perdendo appunto il contatto con l’essenza, con il Sacro, che va oltre l’umano e la sua breve esistenza. Sacro magari muto nel possente tronco di una quercia, nel profilo di una montagna, nel silenzio presente di chi se ne è andato. Arvo Pärt gira intorno a tutto questo, come il gatto con il topo e lì puntualmente ci porta con la sua musica, verso la morte, non tanto come elemento luttuoso, con cui non casualmente siamo sempre più incapaci di venir a patti e di accettarne la costitutiva presenza, ma Pärt è sostanzialmente interessato al limite dell’umano, alla contemplazione dell’inestricabile.
L’uomo moderno affida l’inestricabile alla scienza prima e alla tecnica poi che vedono riposare la loro forza nell’efficacia sperimentale, in quel “farsi esperienza” che aveva già intuito Leonardo da Vinci. La morte e la sofferenza conservano però saldamente il loro regno. Certo la scienza ha ammorbidito la sofferenza e trasformato la vita di tantissimi e negarlo è indubbiamente incamminarsi verso il buio, verso l’oscurantismo, verso il male. Al contempo vediamo in queste ferocissime guerre di inizio secolo, nel nostro divorarci ancora gli uni con gli altri il sintomo di un male che non si lascia cancellare dalla tecnica, anzi spesso rapacemente la utilizza. Arvo Pärt stesso ha dovuto abbandonare l’Estonia, la sua terra per le censure e le pressioni del regime comunista per rifugiarsi in Europa, fuggendo da quest’odio.
Le sue composizioni spingono alla contemplazione, al cammino verso il silenzio in armonie preparatorie di un incontro voluto metodicamente con il limite di quel che chiamiamo umano, con la precarietà di quella vita che ne “La Cena in Emmaus” Caravaggio dipinge in forma di fruttiera, pericolosamente in equilibrio instabile e
pronta a rovesciarsi a terra al primo sobbalzo. Arvo Pärt ci trascina emotivamente alla contemplazione di questa strutturale fragilità dell’anima e del corpo a suo modo “incurabile” anche dalla scienza e dalla tecnica. Tanta e tale è la sua capacità e perizia nel rammentarci liricamente tutto questo che indubbiamente ci ritroviamo al cospetto di uno dei più grandi musicisti viventi. La sua formazione in Conservatorio è caratteristica di un compositore di fine Ottocento e dei primi anni del Novecento, ma il lavoro alla radio come tecnico del suono gli ha permesso di ascoltare anche composizioni moderne, che solitamente non venivano eseguite o trasmesse. Così si è costruito un’esperienza particolarmente ampia e inusuale per un musicista costretto nell’area del Patto di Varsavia. Ritroviamo nella sua musica sempre questo dialogo tra musica classica ottocentesca e linguaggi indubbiamente moderni, in un amalgama del tutto particolare.
"Cerco un comune denominatore. Tendo a una musica che potrei definire universale, in cui si mescolano molti linguaggi. Forse le persone che seguono con interesse il mio lavoro cercano qualcosa come me e sentono di muoversi nella stessa direzione quando ascoltano la mia musica". Ecco direttamente dalle parole di Arvo Pärt la conferma di una ricerca che ossessivamente scava in direzione del Sacro, così sfuggente nel mondo contemporaneo. CLICCATE QUI per scoprire quale selezione del grandissimo compositore estone ho selezionato per voi oggi. Concedetevi tempo, ascoltate, fosse solo per l’inevitabile bellezza anche nello smarrimento.
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Arvo Pärt: contemporary music.
I am interested in the substance of music; interpretation is more of a matter of 'cosmetics.'
The much and the multiple only disturb me; I must seek the one. What is this one, and how can I find the path that leads me to it? There are many manifestations of fullness; the useless declines.
Arvo Pärt
Last night, while listening with emotion to some compositions by Arvo Pärt for vocal ensemble performed by the magnificent "The Tallis Scholars" at the theater, the central question about his work emerged, I believe. What does it mean today to turn to the Sacred, to seek it, and to consider it in the face of its disappearance? And again, how can we think of the Sacred today without slipping into obscurantism? I certainly don't have the answer to these two questions; I can only offer some marginal notes. There is undoubtedly a hunger for the Sacred; it was sensed in the air at the theater, in a concert not simple for voices alone, featuring in parallel Hildegard von Bingen and Gregorio Allegri, all for voices alone, and the audience evidently moved and shaken by what all the pieces evoked with relentless precision: the Sacred. In our civilization, where metaphorically the omnipotence lies in missile defense systems and drones, but also an average age of existence grown dizzyingly, like literacy, to the point of questioning when life should be interrupted to not entrust it solely to machines. Yes, progress has been made and enormous, to deny it would simply be irresponsible.
Yet, alongside progress, with the advent of technology so criticized by Heidegger, we have undoubtedly failed to maintain a relationship not so much with religion, increasingly bogged down in a technical model, reduced to a moral breviary on what to do and what not to do, on the infidel to hate, on the umpteenth radicalism in which to build an increasingly fragile identity, on the political decisions to be made, thus losing contact with the essence, with the Sacred, which goes beyond the human and its brief existence. Perhaps the Sacred is mute in the mighty trunk of an oak tree, in the profile of a mountain, in the present silence of those who have departed. Arvo Pärt revolves around all this, like the cat with the mouse, and invariably brings us there with his music, towards death, not so much as a mournful element, with which, not coincidentally, we are increasingly unable to come to terms and accept its constitutive presence, but Pärt is fundamentally interested in the limit of the human, in contemplation of the inextricable.
Modern man entrusts the inextricable first to science and then to technology, which see their strength resting in experimental efficacy, in that "becoming experience" that Leonardo da Vinci had already intuited. Death and suffering, however, firmly retain their realm. Certainly, science has softened suffering and transformed the lives of many, and denying it would undoubtedly be heading towards darkness, towards obscurantism, towards evil. At the same time, we see in these ferocious wars of the beginning of the century, in our still devouring each other, the symptom of an evil that cannot be erased by technology, but rather often rapaciously uses it. Arvo Pärt himself had to leave Estonia, his homeland, due to censorship and pressure from the communist regime, to seek refuge in Europe, fleeing from this hatred.
His compositions urge contemplation, the journey towards silence in harmonies preparing for a methodical encounter with the limit of what we call human, with the precariousness of that life that Caravaggio depicts in the form of a fruit bowl in "The Supper at Emmaus", dangerously in unstableequilibrium and ready to tip over at the
slightest jolt. Arvo Pärt emotionally drags us into contemplating this structural fragility of the soul and the body, in his own way "incurable" even by science and technology. Such is his capacity and skill in lyrically reminding us of all this that undoubtedly we find ourselves before one of the greatest living musicians. His training at the Conservatory is characteristic of a late 19th and early 20th-century composer, but his work at the radio as a sound technician has allowed him to listen to modern compositions as well, which were usually not performed or broadcast. Thus, he built an experience particularly broad and unusual for a musician confined within the Warsaw Pact area. We always find in his music this dialogue between classical nineteenth-century music and undoubtedly modern languages, in a peculiar amalgam.
I am looking for a common denominator. I tend towards a music that I could define as universal, in which many languages are mixed. Perhaps people who follow my work are looking for something like me and feel they are moving in the same direction when they listen to my music." Here, directly from the words of Arvo Pärt, is the confirmation of a search that obsessively digs in the direction of the Sacred, so elusive in the contemporary world. CLICK HERE to discover which selection of the great Estonian composer I have chosen for you today. Take your time, listen, if only for the inevitable beauty even in bewilderment.
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Ho ascoltato e letto la tua news oggi dopo aver raggiunto un passo montano tanto sconosciuto quanto percorso dagli uomini da millenni. Su questa altura, nei secoli, tanti hanno alzato lo sguardo e si sino posti domande, tanto che qui insustono, stratificati, segnacoli, pietre, piccoli edifici costruiti e distrutti, alzati e crollati seguendo le vicende umane, ma mantenendo sempre questo senso di sacro che affascina chiunque vi sosti un attimo. Per questo quanto posso lo raggiungo... io atea qui sento di respirare con l'universo. Oggi mi hai proprio ispirata.